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lunedì 8 agosto 2016

Vado ancora a pranzo dalla nonna!



Purtroppo non troppo spesso, ma quando posso, quando cioè tutte le combinazioni astrali sono favorevoli, vado molto volentieri. Alla meravigliosa età di 88 anni è ancora pienamente autosufficiente, abbastanza lucida e sempre bacchettona con me che non la vado a trovare quanto vorrebbe. Ha perfettamente ragione. L’unica cosa che sfortunatamente non fa più è cucinare, per l’esattezza non glielo fanno fare, ma io credo che lo farebbe ancora benissimo come lo faceva una volta. Ormai sono subentrate le nuore e lei di buon grado si è messa da parte, ma ho ricordi meravigliosi dei suoi piatti, non vedevo l’ora di andare a mangiare da lei, in realtà quella casa era il mio posto preferito al mondo, ci passavo intere settimane da piccola e mi dispiaceva un casino andare via. Una casetta in campagna, campi intorno, un orto pieno di verdura, legumi e frutta, animali nel cortile. I miei nonni facevano i contadini e con tutto questo mi hanno regalato un’infanzia straordinaria, quella che probabilmente nessun bambino ha più: mi arrampicavo sui rami del fico per andare a cogliere i fichi, gironzolavo per la vigna a mangiare gli acini d’uva; mia nonna mi portava nell’orto in cerca di qualcosa da raccogliere, mi faceva accarezzare i pulcini, dar da mangiare alle sue bestiole, dai maiali alle galline, dalle mucche alle oche; per me era uno spasso cercare le uova in mezzo al fieno nel pollaio, andare con il nonno sul trattore, ed era una festa ogni volta che si faceva la conserva, si mieteva il grano, si raccoglievano le olive o si vendemmiava, erano appuntamenti ai quali non volevo davvero mancare. Si finiva poi a mangiare tutti insieme, nonni, zii e cugini, praticamente una sagra di paese. Pane e prosciutto, salsicce secche, torta e ogni bendiddio che poteva arrivare direttamente dalle loro mani laboriose. Ogni sera prima di andare a dormire caffè d’orzo con pane tostato, un rito. Come lo era aiutarla a preparare le torte di Pasqua, che non ho mai capito perché il lavoro si misurasse in quante uova ci si mettevano dentro, o i cannelloni per la festa del patrono, dalle sei alle nove teglie, come se dovesse venire a pranzo una squadra di rugbisti dopo l’allenamento. Le passeggiate in mezzo ai campi, le mani sempre sporche di terra, i pantaloncini corti, l’aia, il grande albero di gelso nero, che noi quasi amorevolmente chiamavamo “morone”, con la panchina sotto che ancora è lì, i tanti giochi, il grande focolare e un’atmosfera che non dimenticherò mai. MAI, non lo dimenticherò mai quando ero felice e quanto sono stata fortunata. È cambiato tanto, mio nonno non c’è più e la sua è stata una delle perdite peggiori, una di quelle che si porta dietro un bel pezzo di cuore e di vita; non credo di avergli mai detto a sufficienza quanto gli sono grata, mi mettevo seduta vicino a lui, mi prendeva la mano, di cui ancora sento la ruvidezza e chiacchieravamo. Apro la porta di casa e ancora lo cerco, seduto nella sua poltrona, di fianco al camino, con il suo cappello e le orecchie a sventola che picchietta con la mano sul bracciolo.

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